James Taylor

Roma 19 luglio 2009

Recensione di Franco Fusilli

     Scrivere di James Taylor è un’impresa che presenta più di un rischio, la letteratura intorno all’artista che ha ridefinito i canoni del songwriting americano è pressoché sterminata e anche la semplice documantazione di un concerto -uno dei migliaia in una carriera lunga più di quarant’anni- potrebbe nascondere l’insidia del ‘già detto’.

Allora, perché l’esigenza di mettere penna su carta le impressioni suscitate dalla data romana del “Down Home Tour” 2009? Forse, semplicemente, perché non si può tacerne. Non si può tacere, innanzi tutto della grandezza del protagonista, quella grandezza che fa’ paio con una naturale umiltà (esattamente agli antipodi dei tanti insignificanti tromboni di casa nostra); della bravura e della precisione dei musicisti, parliamo del calore “analogico” della sezione ritmica con il superbo basso di Jimmy Johnson e l’inequivocabile drumming di Steve Gadd (attualmente, a nostro parere, il non plus ultra dello strumento in questo ambito), della sobrietà di Larry Goldings, dell’eleganza di Arnold McCuller e Kate Markowitz dei sapidi interventi di Andrea Zon, dell’impeccabile Michael Landau. Ma, sopra tutto, non è possibile trascurare la pericolosa quantità di emozioni che disarma l’ascoltatore, trasportandolo in una dimensione altra, in quel luogo dello spirito dove si fanno i conti con le immagini dei ricordi, gli stati dell’animo, il proprio modo di “sentire” gli stimoli diretti al cuore.

La scrittura di James Taylor è ormai completamente libera da qualsiasi sovrastruttura e questo la rende leggera, di un’eleganza meravigliosa, come protetta da qualsiasi forma di banalità. Una cifra genealogicamente legata alla dimensione intima ‘folksinger style’ (origine spesso rivendicata con orgoglio e affetto), maturata attraverso quattro decadi di intense esperienze, personali e musicali, indiscutibilmente, fra le più sofisticate e rispettate d’America. Il delicato “touch” tayloriano pervade con naturalezza anche le tradizionali covers, disseminate con misura fra le pieghe della sua discografia (prima ancora di costituirne un vero capitolo) e irrinunciabili cameo nei live acts. Che siano happenings funzionali al lato più umorale dell’interprete, come nel caso del celebre tormentone di Elvis “Hound Dog”, oppure momenti di assoluto lirismo -citiamo ad esempio “Wichita Lineman” di Jimmy Webb- si ripresentano semplicemente rilette nella “forma”, tradotte in una nuova, profonda sensibilità, pur conservando, intatta, la magica “sostanza” che li ha resi senza tempo. Gli arrangiamenti sempre fluidi -talvolta sorprendenti nelle soluzioni armoniche e nelle scelte ritmiche- ridipingono anche le composizioni originali, i classici del repertorio, momenti irrinunciabili per l’audience. Musicalmente “James sa’ esattamente ciò che vuole e esattamente come realizzarlo”(1). Si succedono così fra le altre, in uno show che allo stesso tempo è una celebrazione della Canzone -interpretato da musicisti che suonano come un combo impegnato in un seminario sul trattamento jazz delle armonie standard- la solare atmosfera di “Mexico”, esaltata dai colori vividi del drumming di Steve Gadd; le luci soffuse di “Don’t let me be lonely tonight”, sospesa fra le morbide sostituzioni della partitura di Larry Goldings; l’evocativa “Shower the People”, sempre più gospel, con il classico intervento di Arnold McCuller nel finale; “Steamroller Blues”, valorizzata dalla riduzione dei chorus e dalla sorprendente duttilità della voce solista. Siamo perfettamente in accordo con le parole che David Crosby ha utilizzato per descrivere l’incredibile maturità della voce di Taylor: “tremendamente bella, ricca e molto ben controllata [...] Ultimamente penso che la voce di James rifletta l’uomo. Cordiale, amabile e molto gentleman ma anche esempio di grande carattere e determinazione”(2).

Vinta la battaglia più difficile e controversa della sua vita, quella contro la dipendenza dall’eroina -esperienza iniziata a New York all’età di 18 anni (il periodo dell’Original Flying Machine) e chiusa intorno alla metà degli anni ‘80- la storia di James Taylor ha percorso una svolta. “I know I’m lucky to be alive. I could have died about five times. When I finally cleaned myself up, the only thing that made me feel comfortable was exercise. Since then, I’ve stuck to my exercise routines”(3). La sua determinazione nel gestire la propria vita in maniera più salutare traduce un approccio completamente nuovo nel rapporto con se stesso, con gli altri, con il lavoro. La maturazione di una nuova coscienza. “I spent a lot of time with a feeling of negative faith. An assumption that the world had a nasty surprise just around each corner. But I’m comfortable now. I don’t have any investment any longer in things turning out badly”(4). Il periodo di riferimento è quello appena seguente il matrimonio con Kathryn Walker e le cronache dei concerti del 1986 parlano di un James Taylor rigenerato, vitale, che intrattiene l’audience fra un brano e l’altro e mostra un lato di sé mai apparso in precedenza. Oggi, più di vent’anni dopo, Taylor è ancora innamorato della vita on the road. Ha suonato 16 date dell’attuale spettacolo negli States prima di approdare in Inghilterra, a Southampton, dopo sei giorni di navigazione e qualche concerto per verificare i dettagli quando il viaggio a bordo della Queen Mary 2, insieme alla sua band e all’entourage, volgeva al termine (5). Il palco è sempre nel sangue di James Taylor ma dopo il suo matrimonio con Caroline Kim Smedvig -marketing director della Boston Symphony Orchestra- ha raggiunto un personale equilibrio con la sua vita privata, privilegiando, molto più che in passato, il tempo da dedicare alla famiglia. “I arrange my schedule so I’m never away for more than three weeks. I like to keep my place at the table”(6).

Le dure immagini di ‘Ricky’ in “A Junkie’s Lament” sono ormai un ricordo che appartiene al passato. Torna invece alla mente il verso iniziale di “Secret ‘O Life”: “The secret of life is enjoying the passage of time” e non crediamo sia per caso che proprio questa canzone abbia aperto la scaletta di una indimenticabile serata romana.

PS. Un ringraziamento particolare al mio amico Lorenzo Settepanella da qualche anno inseparabile “compagno d’avventure” in giro per l’Italia (e non solo). Cosa dire di un uomo che contatta Arnold McCuller su Facebook e fuori dall’auditorium si fa consegnare quattro backstage pass (sfruttati poi nell’intervallo per scambiare chiacchierare amabilmente   con Landau, Kate Markovitz e Steve Gadd mentre il resto della band ingurgitava Ritz e maionese e James parlava con il suo manager)? Grande!   

(1) L’opinione è di David Crosby che ha tracciato un profilo del James Taylor vocalist per la rivista Rolling Stone in “100 Greatest singers of all time”.

(2) Ivi.

(3) Intervista a James Taylor tratta da Mail Online, il sito internet del Daily Mail. L’articolo a firma Adrian Thrills è titolato: “He’s still sweet, baby: After three marriages and a 20-year battle with drugs, James Taylor is hitting the road again”.

(4) Le parole di Taylor sono tratte da un’intervista di Harry F. Waters (Newsweek) raccolta da Ian Halperlin nel volume Fire and Rain. The James Taylor Story, Citadel Press, Kensington Publishing Corp., New York, 2000, p. 221.

(5) Le date americane del “Down Home Tour” (che si chiuderà il 21 settembre 2009 al Madison Square Garden di New York con un concerto insieme a Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Simon & Garfunkel e Crosby, Stills & Nash) presentano una band con line-up differente rispetto ai concerti tenuti in Europa ovvero:

First Leg (dal 23 aprile al 18 giugno 2009): Keith Carlock, Jeff Babko / Larry Goldings, Jimmy Johnson, Michael Landau, David Lasley, Kate Markowitz, Arnold McCuller, Andrea Zonn;

Second Leg (dal 9 settembre al 29 ottobre 2009): Keith Carlock, Larry Goldings, Jimmy Johnson, Bob Mann, David Lasley, Kate Markowitz, Arnold McCuller, Andrea Zonn.

(6) Adrian Thrills, He’s still sweet, baby, ibidem.