Steely Dan

Recensione di Franco Fusilli

PARTE PRIMA: UN'IDEA

Prima del 1974, ovvero l'anno in cui gli Steely Dan decisero di continuare la loro avventura esclusivamente come studio band, Becker e Fagen avevano già trascorso parecchio del loro tempo on the road. Inizialmente con Jay & The Americans, quando Donald Fagen si esibiva come bassista e tastierista sotto lo pseudonimo di Tristan Fabriani, quindi nel primo periodo Dan, come opening act, fra gli altri, di Beach Boys, Elton John, Kinks, senza alcun controllo sul sound system e nell’apparentemente ovvia impossibilità di riproporre sul palco le perverse dinamiche di sala sempre più tese verso la codificazione della perfezione.

Gestire a proprio piacimento l'elemento "tempo", fermarne il fluire, diluirlo, sezionarlo per poi riproporlo seguendo una successione squisitamente soggettiva è sempre stato nutrimento basilare per la sindrome che da più di un trentennio affligge i due impenitenti beatniks. Il controllo maniacale di ogni sfumatura, di qualsiasi timbro o accento,  l'"X-ray vision", come la chiama il tastierista Ted Baker, che solo in studio dovrebbe trovare habitat naturale.

Eppure negli anni '90 gli Steely Dan hanno ripreso l'attività concertistica. Se il disco dal vivo del '95, più che la summa di un tour, può essere considerato come un live atipico -quasi un mettere penna su carta per verificare le vibrazioni della ditta dopo gli anni di black-out seguiti a Gaucho- le esibizioni live hanno rivestito da quel momento una parte molto importante dell'attività del duo. Via via sono andate intensificandosi ed hanno portato come conseguenza una "selezione naturale" della band. Un gruppo di musicisti, è il pensiero di Walter Becker, sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda (1). I proverbiali rapporti dittatoriali con i sidemen -caratteristica tipicamente steelydaniana, dalle tinte così accese da sfiorare talvolta i confini della "leggenda metropolitana"- sembrano quindi essersi ammorbiditi con il trascorrere degli anni.

Oltre al "fattore umano" anche quello tecnologico è attualmente più funzionale all'idea che Becker e Fagen hanno dell'esibizione dal vivo. Se escludiamo  il sistema acustico elaborato e sperimentato da Stuart Dawson durante l'ultima tournée degli anni '70:  un incredibile numero di dome tweeter, midraranges Bose, giganteschi speaker a sospensione e bass system di straordinaria fedeltà -una macchina infernale per cui due menti perverse non possono che provare ammirazione e nostalgia-, le possibilità dei sound system attuali non sono neppure paragonabili, soprattutto per quel che riguarda gli spazi aperti, allo standard qualitativo del passato (2).

Da  luogo improbabile, terreno arido per consentire la maturazione dei succosi e gustosissimi frutti cui l'ineffabile ditta ci ha abituato, proprio il palco sta dunque diventando il centro di un nuovo stimolante rompicapo, suonare rock come potrebbe farlo la Duke Ellington orchestra.  

 

PARTE SECONDA: LA TESI

L'idea di suonare musica pop con il linguaggio di una big band non è nuova nella carriera dei due ex collegiali. A ben vedere Potremmo rintracciarne le origini intorno al 1978, quando Woody Herman registra cinque brani di Becker e Fagen con la sua Thundering Herd Big Band sotto la supervisione dei due. Continuare a rinvenirne tracce negli anni '90 che vedono Becker -disintossicatosi  dopo un lungo periodo di dipendenza dall'eroina- nuovamente al lavoro con Donald Fagen anche nella corposa New York Rock and Soul Revue insieme a Boz Scaggs, Phoebe Snow e Michael McDonald. Poco dopo, ancora, i nuovi Steely Dan girano con successo gli States con una formazione composta da undici elementi, e si tratta del tour documentato dal già evocato Alive in America (1993/94).

Il concetto di una band stabile ha poi evidenziato alcuni punti cardine di quest'ultimo periodo. Compattezza, solidità e affidabilità hanno affiancato il leggendario perfezionismo. Con Everything must go, il follow-up di Two against nature (ben quattro Grammy nel carniere), gli Steely Dan hanno battuto il terreno della single band. Un ritorno al passato così come per le tecniche di registrazione; il novanta per cento delle sessions sono state infatti affidate all'analogico e ciò, al di là del valore in sè del disco, conferisce al lavoro una sensazione di naturalezza. Un vero tuffo negli anni settanta

 

PARTE TERZA: IL CONCERTO

28 luglio 2007. La data è di quelle epocali. Per la prima volta il vibratore a vapore si esibisce in Italia. Unico concerto in calendario quello di Lucca, nell'ambito della decima edizione del Summer Festival. La Heavy Rollers Band comprende Keith Carlock (Drums), Jon Herington (Guitar), Carolyn Leonhart-Escoffery e Cindy Mizelle (Backing Vocals), Michael Leonhart (Trumpet ), Jim Pugh (Trombone), Roger Rosenberg (Baritone Sax), Freddie Washington (Bass), Walt Weiskopf (Sax), Jeff Young (Keyboards and Backing Vocals), oltre naturalmente a Donald Fagen e l'inseparabile Fender Rhodes 88 tasti e all'imprevedibile chitarra di Walter Becker.

Ottimo viatico per le nostre tesi l'intro strumentale. Un saggio di formidabile compattezza, un frame per ogni strumentista -come nella migliore tradizione delle big band- e la mente che, con un salto imprevedibile, approda su ricordi ormai sopiti, ricollegandosi a sensazioni già provate in un vecchio act della Count Basie Orchestra al festival jazz di Pescara nel 1992. Intensità, precisione, sintonia ma soprattutto l'idea di fondo, gli stilemi, sono assolutamente assimilabili. Anche le parole di Donald Fagen confortano il nostro credo invitando il pubblico ad un viaggio nel profondo degli anni '70.

Si susseguono così Green earrings, Two against nature e Time out of mind, straordinarie in quanto a pulsione ritmica e ricercatezze armoniche; la gemma Hey nineteen, impeccabile esempio di come compiutezza, eleganza e originalità possano coniugarsi in un archetipo da FM; la meravigliosa Peg, che, una volta ancora dimostra la sobrietà dell'approccio di Jon Herington con i classici guitar-solos. Il cammeo di Jay Graydon, che illumina il brano, è quì affrontato rispettandone appieno l'essenza senza tuttavia penalizzare l'istinto dell'esecutore. I solidi groove di basso e batteria, su cui poggiano le colte strutture della tipica composizione di Becker e Fagen, esaltano il drumming muscolare di Carlock e la timbrica soul del basso di Freddie Washington offrendo occasioni irrinunciabili ai fraseggi della linea dei fiati, puntuale ed ottimamente assortita. Walter Becker presenta una delle sue rare performance da lead vocalist in Haitian divorce mentre la potente Josie si ripropone come esempio illuminante del sound steelydaniano.

Due ore di musica complessa ma lineare, cerebrale ma immediata, ricca ma essenziale. Sono gli Steely Dan ed il palco è una nuova sfida.

"Vorremmo suonare rock'n'roll come lo farebbe la Duke Ellington orchestra" ha affermato in una recente intervista Walter Becker "anche se attualmente il nostro sound risulta essere quello di..." "Tommy James and the Shondells" ha sarcasticamente aggiunto Donald Fagen (3). Non disturbare... geni al lavoro.

 NOTE

1. Everything must groove, Ken Micallef, Onstage, jul 1, 2003

2. Stuart "Dinky" Dawson e Roger "The Immortal" Nichols (rispettivamente Sound Consultant e Ingegnere del suono), le cui gesta tecniche in studio sono narrate con dovizia di particolari nelle note di copertina di Katy Lied sono gli uomini chiave per quanto riguarda il lato "sonoro" degli Steely Dan. Curiosa la storia di Roger Nichols, ingegnere nucleare con una travolgente passione per la musica, amico di Frank Zappa fu uno dei primi datori di lavoro per Larry Carlton, scritturato come arrangiatore nel garage losangelino trasformato dallo stesso Nichols, agli albori della carriera, in sala di registrazione. Nichols sarà in seguito convocato dalla ABC records per realizzare il principale studio della major. Insieme a Stuart Dawson elaborerà sofisticate strategie di audio-fidelity per migliorare la fruizione acustica delle esibizioni degli Steely Dan.

3. Everything must groove, Ivi.